Paolo Bellavite, Dipartimento di Medicina, Università di Verona

La micidiale bufala dell’omeopatia e del placebo

Tutti sanno che un lavoro pubblicato dal Lancet nel 2005 (Shang A et al. Lancet 2005; 366:726-32) fu presentato come la prova che l’omeopatia sia equivalente al placebo ed ebbe un fortissimo impatto sul mondo medico scientifico. Forse ancora maggiore impatto ebbe l’editoriale dello stesso fascicolo, intitolato “La fine dell’omeopatia” (Lancet 2005; 366:690), che fu diffuso ai mass media nelle ore precedenti alla pubblicazione per creare ancora maggiore risonanza.  Anche se si tratta di lavori ormai “datati” essi sono stati oggetto di varie re-analisi nel corso degli anni e se ne parla ancora perché il loro impatto nel mondo medico è ancora vivo. A tutt’oggi, tale lavoro di Lancet e l’editoriale ad esso dedicato sono tra i più citati nella letteratura del settore: 454 citazioni al 19 dicembre 2016, mentre per confronto una replica di un gruppo di omeopati sulla stessa rivista (Lancet 2005; 366, 2082-2083) ha solo 16 citazioni.  La pubblicazione di Shang fa ancora da riferimento agli attacchi più pesanti all’omeopatia, come quello di una “commissione” del parlamento inglese, quello di un pannello di “esperti” australiani e persino quelli di periti di parte in tribunali dove si tengono cause contro case farmaceutiche omeopatiche. Wikipedia usa questa citazione come strumento principale del suo attacco frontale all’omeopatia giudicata placebo e pseudoscienza. Il prof. Silvio Garattini nel suo libro del 2015 “Acqua fresca?” sostiene che “quando si è cimentata in queste prove l’omeopatia non ha mai dimostrato di produrre un beneficio. Sulla base di queste evidenze negative la comunità scientifica si è espressa in maniera definitiva” (qui cita Shang et al., 2005). In un’intervista ribadisce: “Ritengo che la parola conclusiva sia stata quella della rivista The Lancet, già nel 2005, con un editoriale celebre: The End of Homeopathy.” Conoscendo l’influenza di Garattini sul mondo medico e sulle autorità regolatorie della politica sanitaria italiana, tali opinioni sono particolarmente significative.

Qui è necessario ricordare alcuni aspetti tecnici  del citatissimo lavoro del Lancet. Gli autori, partendo dall’ipotesi che “gli effetti dell’omeopatia debbano essere (must be) effetti placebo aspecifici”, hanno paragonato 110 studi clinici controllati con placebo in omeopatia con altrettanti di medicina convenzionale, estratti a caso dalla letteratura mondiale concernente patologie dello stesso tipo. Curiosamente, i dati sembrano persino favorire l’omeopatia. Infatti si riporta (traduzione letterale) che “21 trials omeopatici (19%) e 9 convenzionali (8%) sono stati giudicati di buona qualità” e “la maggior parte degli odds ratio indicavano un effetto benefico dell’intervento (figura 2)”. Odds ratio qui significa il rapporto tra del placebo e effetto del farmaco e effetto del placebo: 1 vuol dire nessun effetto, meno di 1 vuol dire effetto benefico del farmaco, più di 1 vuol dire effetto migliore del placebo.  Quindi, ad un primo giudizio le ricerche cliniche omeopatiche sono state giudicate di qualità comparabile se non migliore a quelle convenzionali e hanno dato entrambe un risultato complessivamente positivo.

 

Nella citata figura 2, la fondamentale del lavoro, sono plottati come singoli punti tutti i lavori (pannello in alto omeopatia, pannello in basso medicina convenzionale) in un “funnel plot”, vale a dire una distribuzione in cui per l’asse orizzontale a sinistra vi sono i lavori dove si vede una prevalenza del farmaco sul placebo, al centro i nulli, a destra la prevalenza del placebo sul farmaco; per l’asse verticale invece si vedono in alto gli studi più grandi con errore standard (SE) più piccolo e in basso gli studi più piccoli con l’errore standard più grande (infatti minore è il numero dei casi inclusi e maggiore è l’errore standard). Tra tutti i punti si disegnano rette di regressione oblique che indicano la tendenza del risultato dal basso verso l’alto e da sinistra verso destra: anche da tali linee il risultato globale è molto simile tra omeopatia e medicina convenzionale. Ma qui comincia il lavoro di “demolizione”. Gli autori quindi notano che “I funnel plots erano asimmetrici, con i trials più piccoli nella parte bassa del plot che mostravano effetti benefici maggiori rispetto ai trials con maggiore numerosità.” Detto questo, il testo prosegue riportando una nuova analisi ristretta a soli 8 lavori omeopatici e 6 convenzionali situati nella parte alta (quelli più grandi e con minore effetto), tagliando tutti gli altri, senza dire il motivo di tale taglio, o meglio lasciando intendere che quelli piccoli e con SE maggiore non erano attendibili. Tuttavia non dichiara in nessun punto la ragione di tale “cut-off”, né presenta prove di tale presunta “inattendibilità”. Il risultato è che “restringendo l’analisi ai trials più grandi di maggiore qualità metodologica, l’odds ratio della meta-analisi è risultato 0.88 (CI: 0.65–1.19) basandosi su 8 trials di omeopatia e 0.58 (CI: 0.39–0.85) basandosi su 6 trials di medicina convenzionale”. È chiaro che un “odds ratio” in cui il CI attraversa il valore di 1 è non significativo. Pertanto ecco la conclusione, l’unica che ha fatto storia: “Questo risultato è compatibile con la nozione che gli effetti clinici dell’omeopatia sono effetti placebo”. Guarda caso, tale conclusione è perfettamente coerente con l’”ipotesi” iniziale. Ora, cosa ha mostrato il prof. Hahn in tale conferenza, che invero riprende un suo articolo che però è finora ignorato (Hahn RG Forsch Komplementmed. 2013;20:376-81)? Intanto ha notato chiaramente che “Per concludere che l’omeopatia manca di effetti clinici è stato necessario ignorare più del 90% di tutti I trials disponibili”, senza una analisi rigorosa dei casi scartati cosa che invero avevano sostenuto anche altri, anch’essi finora ignorati (Lüdtke R, Rutten AL. J Clin Epidemiol. 2008; 61:1197-204). Ma, soprattutto, Hahn ha mostrato come il  “il  funnel plot è flawed (viziato, sbagliato) quando applicato a malattie diverse tra loro. Infatti gli studi in cui ci si aspetta forti effetti sono, per ragioni etiche, condotti con gruppi più piccoli rispetto a studi in cui ci si aspetta un effetto piccolo o incerto”. Vista l’importanza del punto vale la pena ribadire il concetto in altre parole. La “scelta” degli 8 lavori finali sui 110 iniziali si è basata sul funnel plot della figura 2, dove tali 8 lavori sono in alto tra quelli apparentemente più “solidi” in quanto fatti con maggior numero di casi e con minore errore standard. Gli altri 102 lavori (con risultati nettamente più favorevoli all’omeopatia) sono stati invece scartati perché erano più piccoli e con maggiore errore standard. Però, e qui sta il punto, il fatto che lavori con risultato migliore (differenza col placebo) siano fatti con un numero minore di casi è ovvio e persino necessario per ragioni etiche: quando ci si aspetta un risultato nettamente migliore rispetto al placebo è eticamente imperativo includere nel trial un numero piccolo di casi. Siccome i lavori omeopatici (e anche quelli allopatici) erano fatti con patologie le più disparate e con farmaci molto diversi, cioè erano molto eterogenei, c’era proprio di aspettarsi che la distribuzione fosse di quel tipo: studi piccoli con buon risultato e studi grandi con risultato percentualmente molto minore. Inoltre, un concetto elementare di statistica insegna che anche a parità di variabilità sperimentale (deviazione standard dalla media), quanto è più piccolo il numero di casi, tanto più alto è l’errore standard  (ES= DS/Radice quadra del numero dei casi). Una bassa numerosità dello studio si accompagna per forza a aumento dell’errore standard ma ciò non significa ipso-facto un criterio di qualità. Ecco perché utilizzare il funnel plot per analizzare casistiche così eterogenee è un grave errore metodologico. Di conseguenza, ogni “conclusione” tratta da analisi così sbagliate (omeopatia=placebo) non può che essere sbagliata e fuorviante.

In sintesi, questa vicenda, che ha avuto tante conseguenze negative sullo sviluppo dell’omeopatia, è stata caratterizzata da tre gravi scorrettezze, le prime due di carattere scientifico e la terza di tipo etico: 1) L’analisi statistica è stata «ristretta» da 110 a 21 studi di buona qualità (con risultati positivi)  e poi da 21 a 8 (ottenendo un risultato negativo) senza spiegare il cut-off e senza aver dimostrato la falsità degli studi scartati; 2) Si è applicato il «funnel plot» nella meta-analisi di lavori tra loro eterogenei,  estrapolandone una retta di regressione assurda; 3) L’editoriale «The end of homeopathy» è stato trasmesso ai mass media prima che fosse pubblicato il fascicolo, manovra programmata tesa a colpire l’omeopatia, probabilmente in un momento in cui l’OMS stava per pubblicare un documento favorevole.

Purtroppo, il danno fatto da tale pubblicazione è stato grande a tutti i livelli. L’errore stesso non è stato ancora riconosciuto da coloro che continuano a citare tale pubblicazione e neppure è chiaro all’ambiente omeopatico, che continua ad accusare il colpo e sente spesso un senso di inferiorità. Volendo escludere la malafede o altri interessi che a volte pesano sulla farmacologia, non resta che pensare che si sia verificato un fenomeno tale per cui una pubblicazione che conferma le proprie idee viene facilmente accettata come valida senza un’analisi critica seria, atteggiamento che comunque non fa onore alla scienza e neppure all’etica medica. Si spera infine che questo caso insegni qualcosa sia al mondo omeopatico sia alla medicina convenzionale, la quale si fa forte della sua prestigiosa editoria scientifica.

Un commento a "La micidiale bufala dell’omeopatia e del placebo"

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