Rassegna informativa dell'Ordine dei Farmacisti della provincia di Roma

Omeopatia clinica, per molti ma non per tutti

RIF, 10: Dicembre 2007, 18

Il micromondo degli omeopati identifica due modalità distinte con le quali affrontare le patologie che affliggono i pazienti che si rivolgono a questa disciplina complementare: da un lato coloro che vogliono utilizzare in via prioritaria un approccio omeopatico, in favore di una visione olistica che non necessita, in senso stretto, della diagnosi clinica di malattia; dall’altro un accostamento al problema che parte dalla patologia e che deve valutare volta per volta un utilizzo dell’omeopatia in parallelo a quello convenzionale oppure in esclusiva. In estrema sintesi, il confronto si svolge non solo sul piano diagnostico e terapeutico ma anche, necessità recente, nel campo della ricerca. Il motivo dominante alla base di questo confronto è rappresentato dal rapporto con la medicina ufficiale, decisamente più ricercato dall’omeopatia “clinica” che non dagli omeopati più aderenti ad un’idea “purista” dell’insegnamento hahnemaniano.

   E’, in effetti, per la differente attenzione dedicata a questo rapporto che l’Omeopatia Clinica affronta il problema della diagnosi integrando la valutazione del paziente eseguita secondo gli schemi della medicina omeopatica, che prevede un esame obiettivo condotto secondo la semiologia tradizionale ma arricchito dalla sensibilità intrinseca all’omeopatia nel saper percepire gli elementi morfologici e fisionomici più sottili, con dati di laboratorio di tipo tradizionale. Non sfugga, tra l’altro, che tale atteggiamento, oltre a consentire un confronto efficace con altri colleghi, tiene conto anche di aspetti medico legali legati alla professione. Restano rilevanti, al fine della composizione della diagnosi, quelle che sono le applicazioni consolidate della metodologia omeopatica, basate sulla fine capacità da parte del medico ad applicare la giusta pratica dell’ascolto per riuscire a cogliere, nella storia, gli elementi peculiari che porteranno alla scelta del rimedio.
   La strategia diagnostica, infine, porterà comunque alla diagnosi di rimedio e per la diagnosi di rimedio è indispensabile la conoscenza della Materia Medica che dovrebbe essere però rivista in chiave moderna e quindi agile per l’approfondimento, espressa con un linguaggio fruibile, controllata ed affidabile grazie ad un lavoro di scrematura del superfluo e in grado di consentire un apprendimento facile e concreto al tempo stesso. Fondamentali, per tali scopi, un aggiornamento della terminologia oramai inadeguata per la medicina del nostro tempo e una revisione delle ipotesi etiopatogenetiche delle malattie alla luce delle moderne acquisizioni scientifiche.
   Ma è sul piano terapeutico che le differenze tra i due modelli di applicazione della Medicina Omeopatica sono più evidenti: l’omeopatia di stampo “classico” si pone l’obiettivo di rintracciare il rimedio attraverso la procedura della “repertorizzazione”, senza aver risolto un problema di fondo legato all’attribuzione di consistenza agli elementi psicologici, significativi, a seconda degli Autori, in fase di malattia in atto o in fase di quiescenza, con implicazioni di rilievo in quanto la prescrizione del “simillimum”, nonostante la sua sorprendente efficacia, può risultare inadeguata in fase di malattia acuta, come, ad esempio, nel caso di forme epidemiche con sintomi comuni. L’Omeopatia Clinica risolve tale dibattito ammettendo il pluralismo prescrittivo e quindi affrontando la manifestazione clinica sia sul piano del sintomo in senso stretto, con la scelta del rimedio o di rimedi sinergici basata sull’esame della fenomenologia, sia sul piano del trattamento del disturbo dell’omeostasi alla base della malattia, con la scelta del rimedio cosiddetto di terreno.
   La scelta del rimedio di terreno potrà basarsi sullo studio del “modello reattivo”, della “costituzione” o del “tipo sensibile”, a seconda dei dati clinico-anamnestici a disposizione e integrando in diversa maniera i tre approcci; non si tratta di scorporare il paziente, che conserva la sua unità biologica, ma di cercare, attraverso una lettura più analitica della sua storia, di affrontare il problema clinico con interventi assolutamente non interferenti grazie all’uso di differenti diluizioni, più basse per la terapia del sintomo, più alte per la terapia di terreno. Un vantaggio derivante da tale approccio è quello di poter accedere al tentativo di costruire una metodologia prescrittiva possibilmente uniforme e condivisa: non sfugge, infatti, come siano più facilmente proponibili delle regole, quanto meno generali, per una prescrizione articolata su due livelli di approfondimento clinico rispetto ad una prescrizione che ha difficoltà a comporre aspetti generali e sintomatologici del paziente. Tali considerazioni portano inevitabilmente ad affermare che l’EBM dell’Omeopatia può scaturire soltanto dall’Omeopatia Clinica, che con la sua impostazione è in grado di affrontare il problema della ricerca, sia di tipo clinico che di laboratorio.
   L’omeopata moderno deve essere in grado di leggere criticamente un trial clinico, evidenziandone i punti di forza e di debolezza ed è auspicabile la costituzione di gruppi di ricerca che siano in grado di condurre studi che abbiano oltre alla valenza interna (ad es., la dimostrazione della efficacia di un rimedio rispetto ad un altro per una certa sintomatologia oppure l’allargamento della patogenesi di un rimedio) anche una valenza esterna (ad es., la dimostrazione della efficacia del modello terapeutico omeopatico). La valenza esterna è indispensabile per il confronto per la Medicina Ufficiale, oramai storicamente inevitabile e, finora, i trial clinici allestiti hanno spesso mostrato carenze metodologiche. Vale la pena di sottolineare che gli studi clinici più noti effettuati in omeopatia hanno avuto una impostazione di tipo pluralista. D’altronde è difficile condurre un trial clinico in omeopatia seguendo le rigide norme “classiche” senza dover affrontare, a volte con scarse possibilità di successo, problemi di tipo metodologico (randomizzazione, cecità, etc.) anche dopo aver diversificato i criteri di valutazione adattandoli alla dottrina omeopatica. L’Omeopatia Clinica, in conclusione, rappresenta il miglior modello di applicazione della dottrina Omeopatica soprattutto all’interno di un progetto più generale di Medicina Integrata.

Fonte: Francesco Macrì, Gino Santini